domenica, Novembre 24, 2024
Storie dell'altro secolo

Storie dell’altro secolo: Poveri ma belli

Avvertenza dell’autore
Benchè le vicende e i personaggi di questa storia siano presi dalla realtà, ogni coincidenza di nomi è casuale. Si rende oltresì noto che l’uso inusuale di termini volgari, è dovuto a rendere il racconto più veritiero possibile.

E sotto er monumento de Mazzini…

Questo è l’ incipit di “Ragazzi di vita”, romanzo acre, violento, fortissimo che diede il successo a Pier Paolo Pasolini. La miseria italiana, l’odore della sporcizia e dei panni vecchi, le estati roventi che risvegliavano appetiti pressochè bestiali.
Il voler iniziare questa mia storia alla stessa maniera non vuole essere opera di plagio, nè tantomeno un atto di presunzione; lo faccio soltanto perché si tratta della strofa di una canzone popolare conosciuta e cantata a memoria da tutti i ragazzi dell’epoca, che è poi la stessa che mi appresso a raccontare.
Si sa che gli amarcord sono sempre ed infidi e i decenni, per chi li ha vissuti, non coincidono mai con quelli, a posteriori da altri raccontati. I giovani che proverò a descrivervi sono quelli del dopoguerra, una gioventù che mi piacerebbe definire sperversa. Vi ho già parlato di quegli anni, di un Italia uscita in ginocchio dal conflitto bellico, ma subito pronta a rialzare la testa, e l’elencare le solite cose, la Seicento e il Settebello (il treno, non il preservativo), i “tagli” di Fontana e i “sacchi” di Burri, il grattacielo Pirelli e il magnetofono Geloso, Telematch, Rintin tin e La dolce vita è esercizio stanco e routinier, un po’ come quei menù di ristorante che strizzano l’occhio al bel tempo che fu: giovedìgnocchi, sabato trippa…
Essendo nato proprio alla vigilia dei Cinquanta, dico oltretutto, che a me quell’elenco risulta, più che indigesto, complicato, ne afferro alcuni nomi, me ne sfuggono altri.
I Cinquanta di un bambino sono un altra cosa rispetto a quelli di un grande, però non sono meno ricchi o meno significativi. Sono esistiti anch’essi e a ripensarli adesso sono l’unica pepita d’oro che ti porti dietro, perché l’infanzia è l’età in cui tutto è una scoperta e ad ogni angolo c’è una rivelazione.

Naturalmente per ogni periodo storico degno di questo nome, non sono rigidi, cronologicamente intendo: non cominciano il primo Gennaio 1950 e non terminano il 31 Dicembre 1959. I miei, per esempio, come cognizione di un epoca arrivano al 1964, ad un pomeriggio quando avevo 15 anni e vidi Tiberio Mitri in compagnia della moglie Fulvia Franco, seduti ad un tavolo del bar di Linetta e Gaetano. E partirono nel 1956, quando mi rivedo sulle spalle di mio babbo in sfilata dietro a Remo Baciccia, Toretto, la Coppietta e Mario. Ancora prima ci sono spezzoni, sensazioni, immagini, brandelli di memoria, utili comunque a ricomperre un clima, un idea, un sentimento.
Visto con gli occhi di adesso, quel Tiberio Mitri, colui che grazie alle sue straordinarie vittorie era diventato la leggenda della boxe italiana degli anni ’50, arrivando fino in America a sfidare Jack La Motta mito vincente dell’epoca, quel Tiberio Mitri dicevo, che si gusta una granita al caffè mi fa capire come sia facile cadere dagli altari alla polvere (morirà nel 2001 travolto da un treno sulla Roma-Civitavecchia, solo e scambiato per un barbone tanto era trasandato dopo una vita segnata dalla droga e tragedie famigliari).
Visto con gli occhi del ragazzino di allora, è l’immagine del fotografo Genovese che, avvisato arriva di corsa per fare lo scatto sognato da una vita. È la storia delle prime imbarcazioni di lusso che ormeggiavano al Molo al posto delle paranze. Era un paese, la Pilarella nella fattispecie, di una bellezza indicibile, dove sulla banchina c’erano più barroccini che macchine, esistevano già il Moletto e la Caletta, intesi come stabilimenti balneari ma, se alzavi il naso sottovento, non sentivi odore di abbronzanti, di prosecco o di smalto rosso per le unghie asciugato al sole. C’era la puzza di pesce messo a seccare, o di scarti che marcivano al sole.
Giulia vendeva ancora le sigarette sciolte e se non consumavi non ti era permesso entrare. Era un paese dove avevano ricominciato a girare i soldi, ma i soldi non erano ancora l’unico valore riconosciuto, solitamente entrava in casa un solo stipendio, le professioni statali avevano ancora un senso, il maestro, il militare, l’impiegato militare, e un decoro. E i geometri non erano ancora diventati architetti (questo sarebbe successo 40 anni dopo ).
Vista con gli occhi di oggi, la partecipazione alla sfilata del ’56, rappresenta un avvenimento ancora oggi unico nella storia del Palio Marinaro. Mi apprestavo infatti a vedere qualcosa di irripetibile, le gesta di cinque ragazzi che, ben cinquanta anni dopo nessuno, dico nessuno è più riuscito ad eguagliare.
Visto con gli occhi di allora è una storia di fischietti e pitipù, di cappelletti alla marò con i colori a spicchi della Pilarella, di giuramenti, di mamma che con tanta cura mi pettinava con la riga e nell’uscire si raccomandava con il babbo di non bere troppo se avremmo vinto. Perché di perdere non si parlava in quegli anni, e il ricordo di quelle sere è sempre il ritorno a casa, questa volta in braccio di mamma, bandierina in mano sventolata, mentre il babbo restava a festeggiare con i vogatori. Quelle erano cose da uomini.
Era un Molo dove la modernità delle prime boutique si mischiava alle ultime friggere e Pietro l’Arrotino vendeva ancora il latte a coppini. Si andava a letto presto e presto ci si alzava, le cartelle, le tracolle, le merende, le partite a pallone o a figurine, lo zompetto prima che suonasse la campanella dell’entrata. Tutti indossavano una divisa, i postini, i bidelli, gli spazzini, i tecnici, c’erano i pennini con l’inchiostro nei banchi, le mani erano sempre macchiate di nero, di blù, le ginocchia sempre sbucciate…
Il lato femminile di quell’età infantile era popolato di mamme, di amiche delle mamme e di ragazzine. Non era asessuato, era pulito, non includeva la donna, si limitava ad ammirarla. Non si possono dimenticare i momenti, tanto odiati, di quando la mamma ci chiamava in salotto per farci vedere alle amiche di famiglia, abiti lunghi, sigarette con il bocchino, orecchini a pendolo, calze di seta, rumori di bicchieri, risate e poi quell’ipocrita “come ti sei fatto grande…” e “chissà quante fidanzate hai…”. Ricordo poi, quando erano prese dalla conversazione ci sdraiavamo per terra inosservati cercando le migliori angolazioni per guardarle fra le cosce o anche solo per vedere un tallone che usciva roteando in modo sexi dalla scarpe con il tacco.
La mia adolescenza alla Pilarella nei Cinquanta è racchiusa in questo segmento, struggente nella sua semplicità, fecondo nella pienezza delle cose che offriva. Si giocava fino a tardi per la strada o al Siluripedio e le mamme ci chiamavano dalla finestra, il giornalino di Capitan Miki costava 15 lire, c’erano i gelati da venti…

Spero di non essere stato fin qui troppo lungo, in quanto questo non è che il preambolo della storia che voglio raccontare, la descrizione di quel periodo. Perché se io ero un bambino, c’erano quelli più grandi di me, i nati prima della guerra e che all’epoca avevano tra i dieci e i venti anni. Qualcuno anche di più. Alla fine di quelle brutture tanta era la voglia di svago, e uno dei passatempi preferiti dai quindicenni era, pensate un po’ che fantasia, giocare alla guerra fra bande rivali. Cazzotti e sassate. Alla Fortezza comandavano Bista e Pino Roglia. Il primo con una mira infallibile, poteva colpirti anche a trenta metri di distanza. Al Valle dettava legge Anchise, velocissimo. Un vero fulmine. Alla Croce erano in pochi, e quei pochi dediti all’oratorio. Fra i nostri i figli di Palmira, di Maria di Olivetto, di Rosetta, di Elda, di Gorizia, di Ninetta, di Marietta, di Artemia, di Iride, di Maria la Gagana. Proprio Silvero ebbe un’idea stravagante per difendersi dalle sassate. Infatti ogni volta prima di uscire prendeva l’orinale di Donna Barona da sotto il letto e se lo metteva in testa a mo di elmetto. C’era poi Franceschino Bracci, Zi’ Franci per per gli amici, che era in possesso di un arma micidiale: la sputazza. Perché la sua non era una sputazza qualunque. La faceva di traverso, nel senso che, il bersaglio non se lo metteva di fronte, ma lo teneva di fianco sorprendendolo facendosi uscire lo sputo dagli angoli della bocca. Ma il nostro capitano di ventura era Franco F. Quando le due bande venivano a contatto era usanza che i due capitani si sfidassero a petto a petto. Franco si metteva in posa ma al primo affondo del rivale veniva steso, e tutti dovevamo battere ritirata. Ma essere giovani all’epoca significava sopratutto far parte della Rari Nantes Argentario. La prima. Chi fu il fondatore lo sanno tutti. Intorno a lui c’erano tutti i giovani dell’epoca. Quelli vicini alla sua età, come Buconigno, Toretto Maiala, Tommasino Caibbe ed i più piccini, fra i quali Netto, la Coppietta, Orlando Olivari, Guido Piedidiacci, i Tortora, Giancarlo Cazzellatte, Alfietto e Cencio di Bistecchi.
Il giorno dopo Ferragosto era tradizione organizzare il Miglio Marino. La partenza veniva data fuori al Bar Giulia, si arrivava fuori Punta Nera e si tornava. La banchina era gremita di spettatori tutti in canottiera bianca, vero segno distintivo di quegli anni. Qualche anno prima, Visconti aveva fotografato il più bello del cinema italiano, Massimo Girotti, con una canottiera dalla spalline un po’ larghe, seduto su un letto sfatto della Bassa Ferrarese: ecco, eravamo tutti dei Massimo Girotti. Alla gara partecipavano anche atleti di fuori come Cinciripini e Stella, ma a vincere era sempre Netto, fino a quando vennero dei veri pezzi da novanta come Pucci e Carena ed il suo dominio finì. Ma la vera impresa Netto la fece nel 1954. E qui torniamo non ai ricordi veri e propri, ma alle immagini, ai brandelli di memoria di cui vi parlavo all’inizio. Quella mattina infatti, in paese quasi tutti erano con le orecchie attaccate alla radio. Fra questi il mio babbo e il mio zio. Io ho questo flash, in cui mi rivedo in terra a giocare a soldatini, e nelle orecchie l’urlo di gioia quando in coda al giornale radio lo speaker annunciò: “Il nuotatore Loffredo Giacomo della Rari Nantes Argentario è in testa alla traversata dello Stretto di Messina…”. Era quella una gara di 3500 metri a livello internazionale a cui partecipavano i migliori nuotatori in circolazione. A renderla più dura erano le forti correnti e i grossi pesci che popolavano quelle acque. Bisogna considerare inoltre che a quei tempi non si usavano le creme per il freddo nè gli occhialini. Soltanto per gli ultimi 500 metri un anima buona gli passò una maschera trionfale con la quale passò per primo al traguardo. Qualche sera dopo uno spezzone della gara fu trasmesso al notiziario sportivo, ed al Bar Giulia, davanti ai televisori c’erano una sacco di uomini, fra i quali in un angolo dell’ultima fila anche Netto in silenzio. Non ci crederete ma ci fu anche chi ingenuamente si voltò e gli chiese: “Ma come fai ad essere allo stesso tempo qui e in televisione?”. Quella vittoria gli cambiò la vita. Infatti lui, che fino a quel momento era imbarcato come ingrassatore sul motopeschereccio Santo Stefano, venne ingaggiato dalla FIAT Nuoto e si trasferì a Torino. Poteva così continuare il suo sogno ed in più lavorare come tornitore. In estate non mancava mai di tornare nella casa allo Sconcione e fu il primo a fare la traversata da Talamone con arrivo in Piazza tra gli applausi dei contradaioli. Fece anche quella da Orbetello Scalo, anche se ci furono molte difficoltà per avere il permesso dalla Capitaneria di Porto, ma il tutto si risolse grazie all’intervento di Teopisto suo professore all’Enem e noto personaggio dell’epoca.
Netto era anche un bel reme, ma nonostante l’insistenza dei fratelli non partecipò mai al Palio, perché credeva che la voga avrebbe potuto nuocere alla sua attività nuotatoria. Grande atleta, ma questo è risaputo, era suo fratello Carlo, che fu campione italiano allievi nei 100 dorso. Un altro bel nuotatore era Orlandone. Non alto, ma con due spalle enormi. Bello stile e discreta velocità. Biondo con il ciuffo impomatato di una simpatia innata, sempre pronto alla battuta e se capitavi sotto la sua mira eri finito.
Al tempo le trasferte si facevano in treno, ognuno pagava per se. Quasi sempre a La Spezia. Con loro andava sempre Silvano Lippi. Una specie di dirigente accompagnatore. Personaggio caratteristico, portava i capelli alla mascagna. Lunghi dietro e radi davanti. Camminava per il paese quasi sempre da solo, a passo sveltissimo e leggendo il giornale piegato in quattro parti. Provateci voi se ne siete capaci.

Enrico, grande ranista, a stile libero aveva uno stile particolare. Una volta durante una gara a La Spezia tagliò e attraversò una muscolia trovandosi nettamente in testa. Il Lippi che era sulla barca della giuria, nonostante la nuotata riconoscibilissima, non se ne accorse che era lui, e fece la spia ai giudici che lo squalificarono. Non vi dico i moccoli. Un altra volta Fulvio Malacarne che nuotava come una fera, alzando la testa per respirare ogni quindici bracciate, partì dalla sesta corsia ed arrivò alla prima sfasciando tutte le cortici che delimitavano il campo di gara. Il tutto fu sospeso per circa due ore per permettere agli organizzatori per rimontare il tutto. Ma erano sopratutto dei personaggi a cui piaceva fare delle goliardate. Con loro ci si divertiva sempre. Un giorno partirono per la città ligure in tre: Enrico, il Lippi e Orlandone. Le gare non ebbero un gran successo e alla fine si incamminarono per la stazione. Imboccarono Via del Priore con Silvano, come al solito davanti di una decina di metri, gli altri due dietro con un cane zelluso che li aveva affiancati dall’uscita dell’arsenale e non li mollava di un metro. Camminavano appaiati in silenzio. Ogni tanto Orlandone diceva: “Sta a vede’ a sto’ cane…”. Giunti all’altezza di una bancarella ambulante alzò la gamba e con la sola dello zoccolo gli vergò un calcio proprio sopra la zampa posteriore. Il cane fece solo: “Cai!” e andò in una specie di testa coda urtando la bancarella e facendo rovesciare tutte le cianfrusaglie. L’ambulante andò su tutte le furie e andandogli davanti gridò: “Di chi è questo cane?” Orlando rimase calmissimo e rispose: “Di quello lì” e indicò il Lippi, che nel frattempo era andato avanti e non si era accorto di nulla. L’uomo lo raggiunse e mettendogli una mano sulla spalla lo fermò volendo le sue ragioni. Silvano non capiva e continuava a ripetere: “Ma che voi? Ma di quale cazzo di cane parli? Ma vaffanculo!” Vedendo che l’uomo non lo mollava li mollò una pina sul muso e lo stese a tappeto. Poi vide i due che scappavano sganasciandosi dalle risa, incominciò a corrergli dietro al grido di: “Brutti bastardi! Se vi acchiappo…”. Numerose erano le notti passate alla stazione a dormire su una panchina in attesa del primo treno utile per Orbetello. Quando si svegliava il Lippi aveva tutti i capelli che da dietro li arano cascati sul davanti coprendogli gli occhi. E poi aveva il vizio di biasciare con la bocca chiusa. Appena lo vedeva Lavaggi diceva: “Se’ svegliato la gufa…”.
Altro bell’atleta era Lucianone delle Briachelle. Era iscritto nella Finanza e divenne campione italiano di salvataggio. Uomo tutto di un pezzo, una mattina fu vittima di uno scherzo dal resto della compagnia. I più grandi si misero daccordo con Vittorio di Gigia, chiedendogli di buttarsi a mare e far finta di annegare. Vittorio che era un pischello, non ci pensò due volte ad accontentare i più grandi. Si tuffò ma dopo una decina di metri incominciò a sbattersi come un frullone andando su e giù nell’acqua. Dalla banchina uno gridò: “Affoga! Affoga!”. Lucianone si voltò e vedendolo non ci pensò due volte e si buttò in aiuto vestito come era. Con due bracciate lo raggiunse. Gli prese il collo nell’incavo del braccio e con l’altra mano gli dette due girate che avrebbero staccato la testa ad un toro. Vittorio non sapeva se ridere o piangere dal dolore, mentre dalla banchina tutti si pisciavano sotto ed applaudivano. Quando capì che era tutto uno scherzo mandò tutti a fare in culo e a Mascioli a momenti l’affogava per davvero.

Le estati erano lunghe, passate a fare lunghi bagni di sole e di mare. Un pomeriggio, fuori la Caletta Orlandone e un altro stavano cazzeggiando nell’acqua. Le solite cose, tuffetti, schizzi in facci, capriole.
Dalla banchina pantaloncini celesti e corpetto bianco, Nino Malacarne li guardava divertito tenendo una sigaretta fra le mani. Ad un certo punto a quell’altro venne di andare di corpo. Per non essere da meno Orlandone disse: “Che fai cachi? Allora caco pure io…” I due cominciarono a sforzarsi, e in un momento intorno a loro incominciarono a galleggiare tanti stronzi. Intanto Nino dalla banchina capì tutto e incominciò a gridare: “A sudicioni! Ma che fate? Ora vado a chiamare la Capitaneria!” Come se niente fosse i due amici presero lo stronzo più grosso e incominciarono a passeggiarselo. Uno, due, tre, quattro poi quell’altro fece: “Nino tuaaaa!” E glielo lanciò. Nino, riflessi prontissimi si abbassò, proprio nel mentre che, dietro lui passava il professor Fuga noto dermatologo con villa ai Campi Regi. Paglietta in testa, tutto vestito di bianco con fazzoletto blù nel taschino fu colpito proprio all’altezza della spalla. Al professore venne istintivo toccarsela e portandosi la mano al naso, schifato gridò: “Ma questa è merda!”. Al che il giovane insieme ad Orlandone tirò fuori il braccio dall’acqua e mettendosi la mano a conchetta all’angolo della bocca grido: “No, so fichi, professo'”.
Un’altra volta erano tutti al Cauto. Zaccandrella, bagni, ricci e sole. Tanto sole. Anche quella volta scappò di fare i bisogni. Si appartò dietro le frasche e mentre si sforzava vide Tuttipesci sdraiato su uno scoglio al sole che aveva preso sonno.
In un attimo gli venne un idea micidiale. Finito di fare il suo ricoprì il tutto con dei sassi, ma prendendo in mano lo stronzetto più piccolo. Una miniatura. Piano piano si avvicinava al resto del gruppo facendo segno di fare il massimo silenzio. Vedendolo con quella cosa in mano, nessuno si immaginava cosa volesse fare, ma man mano che si avvicinava a Tuttipesci tutto divenne più chiaro. La cosa andava per le lunghe, sia perché gli altri cercavano di dissuaderlo, sia perché a volte sembrava che il malcapitato si svegliasse. Infine con pazienza certosina riuscì ad infilarcelo fra la narice e il labbro superiore. A quel punto non restava che attendere sperando solo che Tuttipesci si fosse svegliato il più presto possibile. Ma questo non avvenne e man mano che il tempo passava il gran caldo faceva si che lo stronzetto si squagliasse e un rigolo di merda comiciò a calare da sotto il naso e passando per fortuna dall’angolo della bocca raggiunse il mento, il collo ed il petto di Tuttipesci che respirando inalenava tutti quei gas di merda, e il colore della sua faccia diventava sempre più giallo.
Si svegliò dopo una decina di minuti, tutto sudato e ricoperta di merda ed in preda ai conati di vomito si butto in mare e si sciacquò per più di un ora usando i granelli di sabbia come sapone.

Altro momento di grande aggregazione e divertimento era il periodo del Carnevale. Si mascheravano tutti alla sciornia, ed erano facilmente riconoscibili per la sgambata camminata di uno. Conosciuto lui era facile risalire agli altri. Andavano in Piazza e organizzavano un girotondo. Ad un certo punto, uno che era vestito con una gonna lunga si staccava e si metteva nel centro e mentre gli altri continuavano a girare lui si accucciava, si alzava la gonna e indovinate che faceva? Una volta svuotatosi il girotondo si sfasciava ed ognuno correva per conto suo lasciava una grande staffa nel centro della Piazza che veniva presto calpestata da qualche malcapitato.
Un altro giorno erano in giro a vedere le maschere ma senza essere mascherati. Ad un certo punto furono avvicinati da Toretto Palio, il nostro capovoga, anche lui, seppur non essendo nuotatore facente parte della combriccola. Toretto era vestito come tutti i giorni, magari con i vestiti del fratello per confondere un po’, soltanto che aveva sulla faccia una scatola di cartone su cui c’erano solo tre buchi. Due all’altezza degli occhi a cinese, ed uno della bocca per permettergli di respirare. Toretto aveva già scelto quella che sarebbe stata la sua vittima: Antonio Sabino, una vita all’anagrafe comunale. Gli si parò davanti in silenzio e a braccia conserte. Lo fissava soltanto. Insistentemente. Sabino all’inizio diceva agli altri: “Ma chi è questo?… Lo conoscete?…”. Sabino faceva un passo e toretto sempre lì davanti a fissarlo. Raggiunsero il Corso con Sabino sempre più agitato anche perché gli altri lo aizzavano dicendogli: “Mi sa che questo ce l’ha con te… Ma lo conosci?” “Ma che cazzo ne so chi è ‘sto stronzo!”. Giunti all’altezza del bar del Corso Sabino perse la pazienza, e con un mix di rabbia e paura rincorse Toretto per le scalette accanto facendolo cadere colpendolo con una scarica di cazzotti, mentre Toretto a pancia all’aria preso dalla risarella non faceva ne a rivelare la sua identità nè a difendersi.

Porto Santo Stefano era ancora un paese civile, per molti aspetti parco, con un senso dell’ordine sopravvissuto al conflitto bellico, con un faticoso benessere figlio di sacrifici, di lavoro e di una certa idea di sobrietà. Il secondo conflitto mondiale aveva portato borghesi, paranzellai, contadini tutti sulla stessa barca, l’esperienza della guerra, della fame, della ricostruzione a fare dal collante.
Ma tutto era ancora in fiedi, i “pescecani ” erano dietro l’angolo, e tutto doveva ancora avvenire. In attesa di “rapallizzare” le coste, di cementificare la Piazza ed il Giardino, quel periodo offre a chi lo guarda un’impressione di armonia che di li a non molto scomparirà per sempre. L’armonia perduta di un paese che non aveva ancora perso la propria identità.

49 arditi so’ partiti
pe l’Africa oriental so’ destinati
portavano er fucile sulle spalle
e sotto se grattavano le…..

Le palle der cannone so’ de fero
e quelle de Mazzini so’ de vetro
conosco pe’ l’ appunto un certo Pietro
che tutti pijavano per …..

Didietro ar monumento de Mazzini
giocavano a scopone i ragazzini
e invece de tirasse sassi e pietre
loro se tiravano le…..

Seghe circolari so’ rotonne
rotonne come er culo de ‘na rana
conosco pe l’ appunto ‘na Rossana
che tutti la chiamavano…..

Puttana, porca eva l’ho mancato
credevo d’ ave’ preso n’ uccelletto
cor mio fucile bello netto
e invece avevo preso un bel…..

Cazzetto!!!!!
(49 arditi – canzone popolare)

“C’erano gli alberi che bevevano il sole, c’erano i
gridi delle donne, c’era un gran silenzio”

(da “L’ Estate in Fiera d’ Agosto” di C. Pavese)

Ciao

Una rotonda sul mare il nostro disco che suona