giovedì, Novembre 21, 2024
Storie dell'altro secolo

Storie dell’altro secolo: Tutti figli di Bearzot

In ricordo di Enzo Bearzot… e i ragazzi di quell’indimenticale estate… in Spagna e al Molo. Passammo l’Estate ubriachi di Mundial, di cuccuruccuccu’ Paloma, di ragazze con la fascia sulla fronte e di tante altre cose che, per non apparire il solito nostalgico, non sto qui a raccontarvi.
Chi l’ha vissuto non riuscira’ piu’ a toglierselo dalla mente. Chi l’ha visto avra’ per sempre stampata negli occhi l’immagine di quella Coppa del Mondo tesa al cielo dalle mani di quei giovani vestiti di azzurro con il tricolore nel petto. Chi l’ha sognato avra’ sempre ferma nel cuore l’immagine di quel ragazzo magro,sudato e felice che correva con i pugni alzati: Paolo Rossi.

Per i giovani di oggi è “solo” un calciatore, per noi che abbiamo, chi più chi meno, 50 anni è: “l’Hombre del pardido”, o semplicemente un uomo chiamato:“Pablito”.

Il mondiale dell’82 è stato magico. Non solo perché  l’abbiamo vinto, ma sopratutto perché è una cosa che molti ricordano ancora oggi, a ventidue anni di distanza, nei dettagli più precisi. Molta gente ricorda cosa ha fatto quel giorno, dov’era, cosa ha mangiato. L’idea di scrivere questa storia me l’ha data Claudio circa un anno fa quando, rispondendomi sul forum, citò un comune amico che, purtroppo oggi non è più fra noi. Leggere quel nome e pensare a quei giorni, al Mundial è stato un attimo. Ventidue anni. Quasi un quarto di secolo.  Può’ sembrare poco, ma anche tanto tempo fa. Io, ad esempio, avevo qualche chilo in meno, ma tanti capelli in più. Ero già sposato da alcuni anni con due bambini, di cui il più piccolo di soli nove mesi. In quella fine di Giugno, partimmo all’alba per le agognate ferie, con l’utilitaria carica di valigie, secchielli, palette ed anche un pò di spesa, perché mia suocera diceva: “da voi costa tutto di meno” che, visto che dovevamo passare un mese a casa sua, significava: “frugati”.

L’autoradio scandiva l’avvicinarsi al paesello con il classico “salto” delle stazioni. Partimmo ascoltando “Radio Babboleo”, dovevamo arrivare a “Radio Maremma”! Ma la musica era inesorabilmente sempre la stessa. Il tormentone di quella estate. Ve lo ricordate? Faceva “solo” così: “DA DA DA”. Lo cantava un gruppo tedesco, il Trio, che naturalmente sparì nel giro di quella stagione. Mia moglie era però presa dall’ultima canzone di Claudio Baglioni. “Avrai”. Quella con il “legnetto di cremino da succhiare”. Ogni volta che la sentiva mi diceva: “l’ha scritta per il figlio che sta per nascer…”. Io facevo si con la testa, intento alla guida e immaginando il momento in cui mi sarei finalmente sanguzzato dallo Scoglione del Moletto. Qualche mese fa, la mia dolce compagna, è voluta andare a Firenze a vedere il concerto di Baglioni. Lo sognava dai tempi di “quella sua maglietta fina” e quando ad un certo punto, un giovane lungolungo, ha incominciato un assolo di chitarra, mi si avvicinata all’orecchio e mi ha sussurrato: “e’ il figlio di Claudio…”. Al chè io, come per magia e con un pizzico di malinconia, non ho potuto fare a meno di ripensare a quel lungo viaggio ed al Mundial.

Ventidue anni fa. C’è chi dice: “sembra ieri”, ma pensate che la parrucchiera in Via Iacovacci era ancora Irene e la sua aiutante una giovane ragazza del Molo. Già da molti anni Irene ha scelto Magliano come buon ritiro, e quella ragazza, da circa un mese è diventata nonna di una bella bambina a cui, guarda caso, è stato dato il nome di Azzurra. Il calcio italiano passava un brutto momento, basti ricordare al calcio scommesse, le manette negli stadi e, Paolo Rossi, fra gli altri sospeso per due anni.

Il girone eliminatorio in terra Galiziana fu deprimente. Tre pareggi contro Polonia, Perù e Camerun, e passaggio alla seconda fase grazie a dei calcoli aritmetici che non mi sono mai sforzato di capire. Dopo quelle partite il Presidente della Federazione Avvocato Sordillo disse: “meglio tornare a casa”, e quello della Lega, un giovane Matarrese: “andrebbero presi a calci nel culo.”. Fu proprio questo, e le voci di un’amicizia “particolare” fra Rossi e Cabrini, a far scattare la molla, il silenzio stampa che da quel momento permise di rilasciare dichiarazioni soltanto al capitano: Dino Zoff.

Giunti a casa, lasciai mia moglie a disfare le valigie ed io corsi al Moletto con il bimbo più grande. Incontrai gli amici e dopo i rituali saluti e l’aggiornamento degli stand-by sugli scogli, ormai più che altro per deformazione professionale, passammo a parlare del mondiale. Lo sconforto regnava sovrano. Soprattutto perché alle porte c’erano le partite contro Argentina e Brasile. Ricordo Publietto che disse: “e dove volemo andà…”. E come dargli torto? Publietto, 35 anni, sfogliava ancora la margherita: “mi sposo…non mi sposo…mi sposo…”. Sarebbe capitolato nel giro di un anno. Alla fine uno mi disse: “perchè non vieni con noi da Giulia…ci semo tutti… se voi ti occupo un posto…”. Non fu difficile convincermi.

29 Giugno Italia-Argentina. La televisione era sospesa in fondo, con sopra un poster degli azzurri uscito sul “Guerin Sportivo” e sotto c’era la bandiera tricolore. Appena davanti partivano tante file ognuna composta di cinque sedie. Sopra ognuna di queste vidi che c’erano dei foglietto di taccuino attaccati con lo scotch in cui vi era scritto il nome di battaglia degli occupanti: Topo, Topetto, Guscione, Publietto, Tumme, Ciocci, Francone, Roco, Mestolino, Tardelli, Giosi, Bencio e via via tutti gli altri. Non fu difficile trovare il mio, perchè essendo l’ultimo arrivato era nell’ultima fila. L’Argentina era composta da nove campioni del mondo in carica con l’aggiunta di Ramon Diaz e soprattutto Diego Maradona, 20 anni, al suo primo, attesissimo Mundial. Gentile gli si appiccicò dietro come una tarla. Una cosa al limite della vergogna. Lo seguiva pure fuori dal campo. Lo brutalizzò. Dopo appena dieci minuti, il Pibe de Oro aveva già la maglietta tutta “slabbrata”. E fu proprio quella “camiceta” ridotta a brandelli, che da molti, fu visto come il segnale della riscossa. Fu quello il primo mondiale in cui le telecamere si soffermavano sui primi piani degli allenatori, e  quando per la prima volta inquadrarono Louis Cesar Menotti detto il Flaco, avvenne ciò che sarebbe diventata un’allegra routine. Dalla sedia centrale della prima fila si alzò Sergio Mafucci detto Bocco, 33 anni, che al grido di “Cane nero!” colpì lo schermo con un cono alla crema. Dopo un attimo di sbigottimento, partì una sventagliata di cartacce, posaceneri, pacchetti di sigarette, gelati, coppette, accendini. Bocco. Compagno di giochi e di scuola. Lo conoscevo da quando la memoria mia aiuta a ricordare. Forse da prima. Andavo a casa sua, davanti al forno di Roselli, perché la mia e la sua mamma Temi Mascioli, grande sarta, erano amiche. Me lo ricordo sempre rannicchiato sulla veranda con la mano destra sulla guancia e il gomito sulla coscia, con un giornaletto fra le gambe ed accanto ad una pila di fumetti. Max Bunker, Alan Ford, Tex Willer. Intelligenza superiore alla media, una grande cultura dovuta ai numerosi libri che leggeva. Ricordo che, nel 1968, fu il primo a parlarmi di Garcia Marquez e del suo “Cent’anni di solitudine”. Dopo lo avrebbero letto tutti. O almeno ci avrebbero provato. Lui fu il primo. Si perdemmo di vista, in quanto io, per motivi di lavoro vivevo in una città del nord, e devo dirvi che la sua passione per il calcio, soprattutto quella smodata per la Juve, mi sorprese non poco, in quanto da ragazzi, non era certo quella la sua passione. Grande Pilarellaio. Di quelli veri. Che la seguono anche quando l’equipaggio e formato da gente che non li piace. Ricordo che il 13 a sera si presentava in piazza con coccarda al petto al braccio della bella moglie. Mi si metteva dietro con il suo sguardo miope, e con quella voce che non so descrivere ma che soltanto lui aveva mi chiedeva: “che diki che famo? vincemo?” Era lui, Bocco, il personaggio dia cui mi riferivo all’inizio. L’ispiratore di questa storia. La partita scorreva senza sussulti, quando nella ripresa due lampi di Tardelli e Cabrini resero inutile l’arrembaggio finale dei sudamericani dopo la rete del Caudillo Passerella. Finisce 2 a 1. Prima partita vinta. Alle sette della sera, uscimmo finalmente soddisfatti dal bar, e qualcuno esausto si buttò “timidamente” a mare. Ma il pensiero già correva al Brasile. Un brasile da paura. Si sarebbe giocato ancora al Sarria, il campo dell’Espanol, a Barcellona. Tre anni fa passai un fine settimana nella capitale della Catalogna. Era mia intenzione andare a visitare quel mitico stadio, ma mi dissero che lo avevano buttato giù, per farci…un centro commerciale.

Il giorno era il 5 luglio. Sarebbe stato il giorno del giudizio. Dentro o fuori. Ed al Brasile bastava un pari, avendo superato l’Argentina per 3 a 1. Eravamo consci che c’era stato un miglioramento, ma il problema più grosso rimaneva. Paolo Rossi. “Lo deve levà”,” non ce la fa nemmeno a cammina’”, “trotterella”, dicevamo tutti. Invece Bearzot, decise di tenerlo in campo. Gli dava l’ultima chance. O la prendeva o “tutti a casa”. Quel pomeriggio sebbene la partita sarebbe iniziata soltanto alle cinque, ci ritrovammo tutti dopo mangiato sulla pedana di Giulia. Sembrava il giorno del Palio. Soltanto che eravamo tutti dalla stessa parte. Sotto lo stesso colore. Trombe, trombette e la novità, rispetto alle precedenti partite, della 500 color noce di Massimo il Capo. Il Capo, 33 anni. Gli mettemmo quel soprannome perchè tutti i sabato sera indossava completi eleganti acquistati dal Panzerotto ed andava al King’s con la sua corte al seguito. Entrava a mezzanotte in punto. Se era in anticipo aspettava in macchina. Appena apriva la porta Brunero alzava le braccia facendo un appena percettibile di schiocco con le mani per richiamare l’attenzione di Nino o del Baffo esclamando: “Il solito tavolo ed una bottiglia di champagne per il Capo!”. Oggi l’hanno declassato a “del Panino”. Dal tettino della 500 usciva un ragazzo di 27 anni, magro, neronero con un paio di baffetti bisognosi di concime. Parlava in modo “ruvido” perchè diceva che da piccino si era ingoiato una spina di granturco e per un po’ gli si era fermata nel gozzo. Si, avete capito bene, era proprio Peppe Le Roche! In mano teneva un megafono (ma ne aveva proprio bisogno?) e la macchina a passo d’omo iniziava a sfilare da Piazza fino alla Capitaneria. Roco iniziava a stilare il programma ufficiale della giornata: “Oggi alle 17 al…Bar Giulia(!) scenderanno in campo le nazionali di Italia e Brasile. Italia: Zoff Gentile Cabrini (urlati) Oriali Collovati ( sottovoce) Scirea (urlato), Conti (sottovoce) Tardelli Rossi (urlati) Antognoni (non udibile) Graziani (sottovoce). Allenatore: Signor Bearzot. Brasile: e qui veniva il bello, perché, tra l’ilarità generale pronunciava i nomi a modo suo. Si andava da Giugnor, Farcao, Oscareee, Sergetto, fino a quello che sarebbe diventato un vero cult, l’indimenticabile Sograteeeeesss! Alle quattro eravamo già tutti ai nostri posti e voltandomi notai che non ero più l’ultimo, perché dietro di me erano state aggiunte altre 3 o 4 file. Sarebbe stato quello l’ultimo anno del Soffione al Bar Giulia. Anni che non si sarebbero più ripetuti. Chi si scorderà mai quella maglietta nera piena di patacche o le infradito di gomma dello stesso colore che al confronto dei piedi parevano bianche. Il Soffione abbassava la saracinesca alle 3, dormiva sul biliardo e riapriva alle 6. Altro che “Meme’!” Inutile dire che Gentile riservò a Zico lo stesso trattamento di Maradona. Altra marcatura a omo manco Gise sul Giocatore! Passarono pochi minuti e con un contropiede passiamo in vantaggio. Chi segnò? Paolo Rossi. Poi ci fu il pareggio del Brasile e a Tele Santana toccò la stessa fine di Menotti. Di nuovo in vantaggio. Di nuovo Rossi. Quando a circa metà della ripresa Falcao pareggiò ci fu un’eclissi di sole. Il buio. Cademmo tutti di schianto sulle sedie, con le mani ciondoloni. Lo vedevamo saltare braccio alzato con pugno chiuso. Sbraitava. Sembrava che ce l’avesse proprio con noi, che ci dicesse “ve lo messo nel….”, e noi che non avevamo nemmeno la forza di tirargli una cingomma sbiascicata. Non ce l’avremmo mai fatta. Troppo forti per noi. Ed invece…ancora Rossi! Credete che era finita? Il Brasile pressava a tutta forza e nei minuti finali un colpo di testa di Oscar fu bloccato da Zoff sulla linea di porta. Il fiato si bloccò nelle nostre gole. I verdeoro esultavano reclamando il gol. Furono secondi interminabili ed anche noi non capivamo se era dentro o fuori. Il portierone azzurro rimase sdraiato con la mano sulla palla a dimostrare al mondo che non aveva superato la linea bianca. Poi si alzò con fare minaccioso agitando l’indice della mano destra ringhiando un: NO! E qui avvenne un fatto divertente che vi voglio raccontare. Infatti alcuni saltarono in collo a DuDù, lo scozzese. Chi lo baciava, chi lo abbracciava. Tutti che gli gridavano: bravoooo! Perché? Ma perché era il sosia di Zoff. Due gocce d’acqua. Ora, da quando sta nella terra di Albione ha fatto tutti i capelli bianchi e gli assomiglia di meno. Anzi colgo l’occasione per mandargli un consiglio: perchè non fa come Zoff ed il suo amico Giampino che se li tingono? Il fischio finale fu una liberazione e questa volta non furono più uno o due ma…TUTTI A MARE! La semifinale con la Polonia non ci fece nemmeno il solletico e va ricordata se non altro per un’altra doppietta di Paolo Rossi. 2 a 0.

Finalmente arrivò l’11 luglio. Madrid. Stadio Santiago Barnabeu. Ore 20 Italia-Germania. Il pomeriggio nessuno andò al mare, eravamo tutti sulla pedana di Giulia avvolti dal tricolore. Sapevamo che eravamo forti, che avevamo il vento in poppa, ma i tedeschi sono un mostro a sette teste. Duri a morire. E poi non ci sarà Antognoni, ma questo per Peppe è di buon auspicio. Roco legge le formazioni allo stesso modo, portando una sola novità. Quando tocca al centravanti azzurro, urla con tutto il fiato che ha in gola: Rossi Rossi Rossi Rossi Rossi! Ben 5 volte, quante i goal segnati da Pablito fino a quel momento. Era una calda giornata, e ricordo che c’era “uno” che distribuiva salviette profumate che noi si spargevamo sul collo e sulla fronte. Puzzavamo tutti come bagasce. In quei giorni l’Italia era sconvolta dalla tournee dei Rolling Stones. I giorni prima molti paesani rockettari dell’epoca partirono per Roma e Firenze a vedere il loro concerto e tornarono con la famosa maglietta della linguaccia. Quella sera si sarebbero esibiti a Torino, davanti a tanti spettatori scatenati, con uno schermo gigante alle spalle che trasmetteva la partita. Mike Jagger salì sul palco con la maglietta azzurra numero 20 di Paolo Rossi profetizzò un 3 a 1 per noi. Quella sera il bar era pieno all’inverosimile. I posti erano occupati alla solita maniera. Guai cambiarli! Pena la scomunica. Quando mi voltai, stavolta vidi che la gente arrivava fino alla porta. Numerosi erano in piedi, e proprio in fondo c’era un gruppo di turisti tedeschi che, devo dire si comportarono in modo molto sportivo. In tribuna Pertini fumava la pipa. Nel primo tempo Cabrini sbaglia un rigore. Ah! se c’era Antogno! Ma appena la ripresa inizia un folletto di nome Brunetto Conti si invola sulla fascia destra e arrivato sul fondo fa partire un cross. Al centro Rossi pare inciampare, o forse inciampa davvero, ma colpisce la palla di testa e la manda in rete. Poi l’urlo di Schizzo che ancora oggi ci ripropongono un giorno si e l’altro pure, ma che noi vedemmo soltanto il giorno dopo, ed il sigillo di Altobelli. Pertini che agita le braccia, e dice: “non ci pigliono più'”. Invece Bocco si voltò verso i tedeschi in fondo alla sala e fece “Tiè!” Sembrava Nino Manfredi in Pane e cioccolata. Poi il goal di Breitner ed il fischio finale dell’arbitro, il brasiliano  Choelo. L’urlo rotto dall’emozione di Nando Martellini: Campioni del Mondo Campioni del Mondo Campioni del Mondo! E quella volta tutti, ma proprio tutti a mare! Bimbi, ragazze, giovani, vecchi.

Le bandiere tricolori invasero le strade del Molo e la Piazza. La 500 del Capo non era più sola. Sembrava di essere a Monza. Dopo il bagno si formò un lungo corteo che fece il giro del paese. I turisti si mescolarono ai paesani, l’alcool scorreva a fiumi, ragazze in topless che baciavano con la lingua giovani mai visti prima. Ad un certo momento Bocco richiamò l’attenzione e gridò:” e quest’anno vincemo pure la Coppa d’Oro!” E già, perche quell’estate la Pilarella cercava la terza vittoria di fila. Io uscii dal corteo davanti a Fuga quando vidi mia moglie scendere la scalinata. Glielo avevo promesso: “Se vinciamo ti porto da Lapino.”. Era quasi l’una ed eravamo ancora al tavolino a tirar tardi con Anna, Lida e Gildo quando vedemmo entrare la maggior parte dei miei amici. Volevano mangiare. Battilocchi, 35 anni, era carico come nei giorni migliori. O peggiori, fate voi. Fascia rossa sulla fronte, le pizze si appiccicavano al soffitto, e quella risarella fissa che ha sempre in quei giorni. I ragazzi cominciarono a provocarlo chiedendo delle pizze personalizzate con i nomi degli eroi del mundial. E siccome lui non ci capiva na sema, si alzò Publietto con la sua fantasia e incominciarono ad infornare. Ricordo la pizza Gentile con l’insalata riccia, e quella Bearzot con un lungo wurstel con un’oliva in cima a formare una pipa. Ventidue anni fa. Pensate che quel giorno nacque Cassano, e qualche mese dopo Kaka, ovvero i più grandi campioni della serie A di oggi. Ma se ci voltiamo indietro, non possiamo non vedere che alcuni dei protagonisti di quella estate non sono più fra noi. Uno era in campo, Scirea, altri con noi al Bar Giulia e gli ho già ricordati scrivendo il loro nome sulle sedie. Come in quei giorni.

Il giorno dopo la televisione ci mostrò la partita a scopone scientifico sull’aereo fra Pertini e Zoff contro Bearzot e il Barone Causio. La Coppa del Mondo appoggiata sul tavolino. Guttuso disegnò un francobollo celebrativo con l’immagine di Zoff con la Coppa alzata al cielo. E noi già a dire che avremmo fatto lo stesso con Cicchetto al posto di Zoff. Letigavamo. Chi sarebbe stato il nostro Guttuso? Chi voleva Elio Loffredo chi Publio Terramoccia. Poi l’incidente a Nereide e addio…francobollo. Probabilmente l’Italia vincerà altri mondiali, ma non sarà mai come nell’82, niente potrà riprodurre la gioia e lo schock del trionfo in terra di Spagna.

Nel 1982 l’Italia era, diciamolo senza vergogna, un paese di seconda fascia. Altro che Europa Unita. A malapena potevamo ambire ad un posto a “Giochi senza frontiere”, il resto faceva piangere, pallone compreso. Dopo quella vittoria ci accorgemmo improvvisamente che l’immagine del Paese nel mondo cambiò. Ne beneficiarono gli stilisti, Maria Angela, i designer, gli artefici del Made in Italy, ne approfittò Bettino Craxi per riversare su se stesso e sul proprio governo un’immagine vincente. Fu un trionfo. Un orgasmo. Un riscatto. La mattina dopo Gianni Brera scrisse su Repubblica: “Il terzo mondiale dell’Italia non si discute, come non si discutono i miracoli veri. Adios, intanto, tia Espana, adios…” A proposito, io quel giorno a mezzogiorno mangiai parmigiana di melanzane dalla mia suocera…e voi?

“Quando facevo il liceo classico ad Udine ci davano da leggere i russi, poi scoprii Hemingway che in una riga scriveva quello che i russi raccontavano in venti pagine…Ecco il mio calcio è come Hemingway”

Enzo Bearzot in un’intervista rilasciata al n.24 1990 dell’Europeo.

Eya alala’ pci psi dc dc pci psi pli pri dc dc dc dc Cazzaniga avvocato Agnelli Umberto Agnelli Susanna Agnelli Monti Pirelli dribbla Causio passa a Tardelli Musiello Antognoni Zaccarelli Gianni Brera Bearzot Monzon Panatta Rivera D’Ambrosio Lauda Thoeni Maurizio Costanzo Mike Bongiorno Villaggio Raffa’ Guccini onorevole eccellenza cavaliere senatore nobildonna eminenza monsignore vossia cherie mom amour…

E’ l’Italia di allora…ma ancora l’Italia di
oggi…perche’ dall’altra parte c’era e c’e ancora
oggi… tanta gente che non c’ha l’acqua corrente e non c’ha niente.

(Nuntereggaepiu’) – Rino Gaetano.

Ciao

Una rotonda sul mare il nostro disco che suona

Storia pubblicata su pilarella.com il 26 Febbraio 2004